Ne parliamo con Catia Bastioli

Catia Bastioli
Amministratore Delegato di Novamont S.p.A.

Catia Bastioli è una chimica, una scienziata e un’imprenditrice.
È Amministratore Delegato del Gruppo Novamont, realtà nata dai risultati della sua ricerca sullo sviluppo di bioplastiche e biochemicals da fonti rinnovabili secondo
un modello di Bioeconomia circolare da lei elaborato intesa come rigenerazione territoriale con al centro la qualità di suolo ed acqua.
È inoltre Presidente dell’Associazione Kyoto Club e del Cluster Italiano della Bioeconomia Circolare SPRING. Full member del Club of Rome. È stata Presidente di Terna dal 2014 al 2020. È stata membro di importanti gruppi di lavoro della Commissione Europea su cambiamenti climatici, l’ambiente e bioeconomia, come il Mission Board on Soil Health and Food. È stata premiata come ”Inventore europeo dell’anno 2007” nel settore dei biopolimeri.
Le sono stati attribuiti una Laurea Honoris Causa in Chimica Industriale (2008, Università di Genova), in Ingegneria dei Materiali (2016, Università di Palermo) e in Economia Aziendale (2018, Università di Foggia) e un Dottorato ad honorem in Ingegneria Civile, Chimica, Ambientale e dei Materiali (2019, Università di Bologna).
È Cavaliere del Lavoro dal 2017.

Quale impatto potranno avere le recenti evoluzioni geopolitiche sul percorso di transizione ecologica tracciato dall’Unione Europea?

La guerra in Ucraina, oltre al disastro umanitario che sta creando in tempi brevissimi, sta colpendo un’area chiave per l’approvvigionamento di materie prime a livello globale e sta facendo deflagrare lo scontro culturale tra diverse forme di governo obbligandoci a bruciare risorse che dovrebbero servire alla mitigazione della crisi climatica. Non è facile prevedere scenari e trovare soluzioni in questo contesto di estrema vulnerabilità per gli equilibri mondiali che, dopo una pandemia ancora in corso, vede al centro la crisi energetica, lo shortage e la lievitazione dei prezzi delle materie prime e pesanti problemi geopolitici. Dobbiamo avere ben chiaro che le molteplici crisi che stiamo vivendo sono gli effetti devastanti dell’avere ignorato la complessità e i ritmi della natura superando i suoi limiti. A questo proposito è importante ricordare che nel 2021 le costruzioni umane hanno superato quelle della natura, quando, solo nel 1960 erano il 10% e nel 1900 erano il 3%. Purtroppo, come accade per i fenomeni esponenziali, quando tali effetti si manifestano non sono più facilmente arginabili, certamente almeno con gli strumenti del modello che li ha prodotti. Questo ritardo ormai accumulato nel correggere la rotta, sta avendo e avrà conseguenze pesanti sulla nostra vita e sugli ecosistemi per molto tempo, anche se riusciremo a modificare in modo sostanziale il nostro modello di sviluppo ora. Non solo i danni provocati dai nostri comportamenti, ma anche le modalità con cui interverremo per correggere i nostri comportamenti e il nostro modello economico e sociale avranno impatti rilevanti sulle attività umane ed in particolare su quelle produttive. La complessità e gravità della situazione è sotto gli occhi di tutti e la difficoltà di trovare soluzioni adeguate risiede proprio nel percepire le dinamiche evolutive della situazione, e quindi vedere in anticipo quali possibili retroazioni sistemiche potrebbero generarsi in seguito a una data azione o scelta strategica. Le decisioni locali e globali, a livello politico, industriale, energetico, agricolo, sanitario, sociale di enorme portata, se concepite solo come risposte alle emergenze senza un modello di futuro, e visione sistemica, saranno innesco per altri fenomeni di inaudita intensità e accelerazione.

 

Specialmente per l’Italia, l’esigenza di accelerare il disaccoppiamento energetico dalla Russia ha messo in luce il valore dell’efficienza: come si posiziona il nostro Paese rispetto al panorama europeo? Quali sfide lo attendono nei prossimi anni?

L’Italia ha una serie di primati che la posizionano ai vertici della transizione ecologica in Europa. Siamo uno dei Paesi a maggior efficienza energetica, con una intensità energetica primaria inferiore di circa il 18% rispetto alla media. Siamo leader nel settore delle rinnovabili che soddisfano oggi quasi un quinto del fabbisogno energetico nazionale. Come riportato dal Rapport Green Italy 2021, inoltre siamo leader nel settore dell’economia circolare, con un riciclo sulla totalità dei rifiuti – urbani e speciali del 79,4% contro una media UE del 49%. Il risparmio annuale è pari a 23 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio e a 63 milioni di tonnellate equivalenti di CO2 nelle emissioni grazie alla sostituzione di materia seconda. Siamo poi tra i leader mondiali nel settore della chimica verde con competenze all’avanguardia ed impianti primi al mondo, nonché più in generale leader europei nel settore della bioeconomia: siamo terzi in Europa per fatturato (317 MLD) e per posti di lavoro (circa 2 MLN), secondi per progetti di ricerca e innovazione, primi per ricchezza di biodiversità e per numeri di prodotti DOP, IGP ecc., nonché primi per la raccolta del rifiuto organico (47% rispetto al 16% della media europea). L’agricoltura italiana è poi tra le più sostenibili in Europa. In questo contesto però non dobbiamo dimenticare che siamo uno dei Paesi più poveri di materie prime e che servirebbe un Paese grande 5,3 volte l’Italia per avere risorse sufficienti per soddisfare i consumi annui degli italiani. Inoltre, siamo uno dei Paesi europei con la più alta dipendenza energetica dall’estero: nel 2021, infatti, le importazioni da altri Paesi di combustibili fossili hanno coperto ben il 77% del fabbisogno nazionale, a fronte del 23% soddisfatto dalla produzione nazionale (per la maggior parte costituita da fonti rinnovabili). Se consideriamo che l’Italia si trova al centro dell’area mediterranea, tra le più colpite dal fronte del cambiamento climatico e dalla degradazione del suolo, con un basso livello di autosufficienza, in un momento in cui la corsa alle materie prime sta diventando insostenibile, capiamo bene che la grande sfida che abbiamo di fronte è quella di valorizzare il potenziale evolutivo dei nostri primati. La transizione ecologica è di fatto un processo di innovazione incrementale indotta che dobbiamo innescare per rafforzare la competitività del Paese, accelerando a partire da quei settori in cui si è investito negli anni, dove si sono create partnership solide, strutture e risultati concreti e tangibili, tecnologie trasformative, progetti di rigenerazione territoriale come ponti tra diversi settori, le cui ricadute ambientali e sociali siano misurabili e siano non solo di portata tecnica ma anche culturale, il cui potenziale di moltiplicazione e accelerazione sia tangibile.

 

Quali sono e quali saranno le variabili chiave per determinare il successo della transizione ecologica? Quali le tecnologie che segneranno positivamente il prossimo decennio-ventennio dell’energia?

La variabile determinante per il successo della transizione ecologica sarà un profondo cambio di mindset. Credo infatti che la nostra incredibile mancanza di reazione non sia più e tanto la mancanza di tecnologie adeguate, quanto un nostro limite culturale, che facciamo ancora molta fatica a superare. Dobbiamo cambiare le lenti con cui guardiamo il mondo, che oggi sono settate sulla separazione e sulla disconnessione, e sintonizzarci nella sfera dei sistemi complessi come sono quelli sociali e naturali. Se rimaniamo nella logica a silos dell’economia lineare, caratterizzata dall’estremo individualismo, dall’industrializzazione della competizione, dalla disconnessione dal tessuto sociale e dalla natura, e da un approccio basato sullo sfruttamento e sull’accumulo di capitale senza radici, il solo passaggio dai combustibili fossili all’energia rinnovabile non farà la differenza nel guidare la transizione ecologica. Non basta avere le tecnologie, ma occorre la saggezza nell’utilizzarle, perché se non calate in un approccio sistemico attraverso progetti di territorio anche le soluzioni più sostenibili possono diventare molto impattanti. Fatte queste premesse, per raggiungere gli ambiziosi target del Green Deal al 2030 e al 2050 la massima priorità dovrà essere data ad una fortissima accelerazione delle rinnovabili come il fotovoltaico, l’agrivoltaico, l’idroelettrico, l’eolico, all’efficienza energetica, alla mobilità sostenibile all’economia e alla bioeconomia circolare. In modo particolare, la bioeconomia è un aggregato complesso che, comprende l’agricoltura, le relative filiere agroalimentari, i bioprodotti, il legno la carta, fino ai rifiuti organici, alla bioenergia alla chimica bio-based. Questo settore si lega fortemente al paradigma dell’economia circolare, rappresentandone l’elemento chiave per diminuire l’utilizzo di risorse non rinnovabili e massimizzare l’efficienza e la sostenibilità delle risorse rinnovabili. Se declinata nella logica circolare, come rigenerazione territoriale, e come creazione di interconnessioni tra settori diversi, e con al centro la salute del suolo, potrà essere uno strumento potente delle strategie e politiche europee del Green Deal per decarbonizzare la nostra economia e per un cambio di rotta che passa per un cambio culturale della società.

 

Quando si parla di transizione ecologica ci si tende spesso a concentrare sul punto di arrivo: se l’obiettivo è chiaro, quali saranno concretamente le tappe principali del percorso che ci aspetta?

Come ho avuto modo di dire più volte questa rivoluzione si gioca a livello di territori, sull’agricoltura, sulle filiere integrate, sul rapporto tra città e cibo, sull’eco-design dei prodotti, sulla loro biodegradabilità in quelle applicazioni in cui ci sia concreto rischio di accumulo nei suoli e nelle acque, sulle infrastrutture interconnesse in particolare per la produzione di bioenergia e per il trattamento dei rifiuti organici liquidi e solidi, riconoscendo il valore di questi rifiuti non solo per mantenere la fertilità e la biodiversità dei suoli, ma anche come materie prime strategiche, sulla messa in campo di processi chimici, fisici e biotecnologici per trasformare scarti in prodotti. In questa direzione occorrerà favorire lo sviluppo di progetti territoriali sistemici in cui non valga la singola tecnologia ma l’integrazione di più tecnologie a servizio del disaccoppiamento tra uso delle risorse e sviluppo, partendo dalla rigenerazione di aree marginali e di crisi complessa, dallo sfruttamento di fonti rinnovabili diversificate, possibili oggi, promuovendo l’approccio interdisciplinare e la connessione con le comunità. Lighthouse e living labs, ambiti in cui la ricerca, l’agricoltura e l’industria si integrano per testare e dimostrare soluzioni, saranno essenziali per valorizzare ulteriormente specificità territoriali, sperimentando sul campo e monitorando gli effetti, moltiplicando i casi virtuosi. Essenziale sarà applicare obiettivi e target di rigenerazione territoriale, fattori di circolarità per valutare la reale sostenibilità ambientale e sistemi di monitoraggio per capire se si stia realmente “facendo di più con meno”.
Una tappa fondamentale dovrà poi essere il riconoscimento del valore e del potenziale rigenerativo del settore ed il superamento di quelle barriere normative che ancora oggi impediscono una piena attuazione della bioeconomia circolare. Infine, occorre comprendere a fondo il significato di transizione, che implica una condizione intermedia dinamica, ovvero un’evoluzione in atto. Alla luce di questo, dobbiamo avere ben chiaro che ogni azione non è neutra e genera un impatto, pertanto occorre fare scelte che permettano di avere vie chiare di sviluppo. L’autonomia del nostro Paese deve essere la nostra priorità, ma andrà raggiunta con la molteplicità e ridondanza di soluzioni avendo un orizzonte più ampio rispetto all’interesse delle singole imprese e persone, ricordandoci che l’approccio contributivo e il lavorare insieme sono ingredienti essenziali per lo sviluppo di cultura sistemica e lungimirante.

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